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Spesso portavo i miei "souvenirs" jacovittiani affinché il maestro me li autografasse. Qui, autografa il suo gioco da tavolo "La febbre dell'oro" |
Non
è facile tenere i ritmi di un grande maestro qual'era Jacovitti. Un
artista del suo calibro aveva una concezione del tempo molto
personale che faceva si che una settimana fosse composta da sette
giorni, ma che questi ultimi fossero tutti feriali. Per Franco non
esistevano sabati, domeniche, festivi o prefestivi. Lui lavorava
sempre. Aveva esordito a 16 anni sul settimanale fiorentino “Il
Brivido” e da allora, anno dopo anno, viaggiava con la stessa
potenza di un treno tra vignette e nuvolette da oltre mezzo secolo,
senza mai essere stanco d'alzarsi la mattina, armarsi di pennino e
inchiostro e riempire fogli di salami, vermi e quant'altro gli
ronzasse in testa. Di conseguenza anch'io incominciai ad abituarmi ai
suoi ritmi imprevedibili. Imprevedibili perché di fatto non c'erano
orari fissi in cui vedersi, tutto era casuale come il suo modo di
lavorare, che non prevedeva nessuna fase preliminare come
sceneggiatura o studi dei personaggi.
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Una delle strisce di Max e Quinn, pubblicate dalla rivista medica "Medical Tribune". © Jacovitti |
Vivevo
in una pensione sul Gianicolo e spesso la domenica ci mettevamo
d'accordo con alcuni amici per fare colazione al bar, fare una
passeggiata per godersi un po' d'aria mattutina. Ricordo che più di
una volta venni bloccato dalla telefonata di Jacovitti che mi
chiedeva di raggiungerlo a casa per ritirare i disegni da
inchiostrare. A volte chiamava la mattina, per incontrarci il
pomeriggio. A volte la sera per prenotarmi la mattina, solitamente
dopo le dieci. E quando non ci sentivamo era perché avevo tanto di
quel lavoro che anche una sua telefonata rischiava di non farmi
finire i disegni.
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Jac in vacanza a Forte dei Marmi. |
Quando
uscivo per farmi un giro in libreria, o a cena da qualche amico, al
mio rientro c'era sempre qualche messaggio di Jacovitti che mi
cercava. Avevo sempre delle monetine in tasca perché ogni minuto era
buono per chiamarlo. Praticamente per ogni mio impegno, esterno al
mondo di Jacovitti, rischiavo sempre di dare “buca”.
E
poi c'era di mezzo anche la scuola del fumetto che, ormai,
frequentavo saltuariamente. Del resto mettetevi nei miei panni:
scuola del fumetto o “bottega da Jacovitti”? Chi preferisce la
prima opzione si faccia internare all'istante.
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La cover del libro "Burle e Fatti alla fiorentina" e la dedica scritta da Jac sulla mia copia personale. © Jodice-Jacovitti |
Era
duro tenere questi ritmi, credetemi, però riuscivo a cavarmela. A
volte dovevo inchiostrare più velocemente, di conseguenza, a lavoro
finito, si poteva notare la differenza tra un disegno fatto bene e
uno leggermente più tirato.
Si
può dire che da quando cominciai la collaborazione con il maestro,
il nostro lavoro fu principalmente dedito all'illustrazione, alla
pubblicità e alle vignette. E questo, a essere sincero, mi
rattristava un po' in quanto avevo conosciuto e amato l'arte di
Jacovitti attraverso i suoi fumetti. Ma a parte le solite ristampe,
di fumetti neanche l'ombra, tranne una piccola striscia con due
personaggi, che Jacovitti realizzò per una rivista medica, "Medical Tribune" (nell'ultimo periodo non si capisce perché era richiestissimo
nell'ambiente medico): Max e Quinn, le avventure di due microbi (o
batteri, non l'ho mai capito) destinate a un pubblico di bambini. Il
formato che usammo fu quello della striscia giornaliera
all'americana.
L'estate
s'avvicinava e come di consuetudine Franco avrebbe passato i mesi di
luglio e agosto nella sua casa a Forte dei Marmi. Prima d'andarsene,
mi parlò di alcuni progetti a cui avremmo lavorato al suo rientro:
un libro erotico da illustrare, il “Kamasutra Spaziale”, una
probabile storia di Cocco Bill per l'editore Sergio Bonelli, ma
quello più urgente, da realizzare per il suo rientro dalle ferie,
riguardava delle illustrazioni per un libro scritto da suo cognato,
Nino Jodice: “Burle e fatti alla fiorentina”. Naturalmente a me
l'onore di realizzare il tutto: dall'ideazione alle matite fino
all'inchiostrazione. Per fortuna i disegni dovevano essere in bianco
e nero.
Ma
dentro di me c'era il desiderio di disegnare i fumetti del maestro:
volevo disegnare Cocco Bill. Incominciai a parlare a Jacovitti di un
progetto che mi ronzava in mente fin dai primi mesi della nostra
collaborazione: raccontare la storia di Cocco Bill, dalla sua nascita
alla sua infanzia, presentare al pubblico i suoi genitori, il suo
primo amore, il suo incontro con il suo fido cavallo Trottalemme, la
sua passione per la camomilla. Chiesi a Franco un incontro per
discutere del progetto a quattr'occhi e per vedere se potevo contare
su una sua collaborazione. C'incontrammo poco prima della sua
dipartita per il mare. Io ero pronto a dedicare tutto il mio tempo a
questo progetto.
Sette
giorni su sette.
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