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Roma, luglio del 1991. Jacovitti al suo tavolo di lavoro mentre visiona i miei disegni. |
Quella domenica mattina
di ottobre avevo appuntamento con Jacovitti alle 10:00. Mi alzai alle
05:00 in tempo per veder spuntare l'alba. E non feci neanche fatica
ad alzarmi perchè naturalmente passai la notte a pensare a questo
incontro.
Ragazzi! Ma vi rendete
conto? Il mio Idolo, la mia fonte d'ispirazione artistica mi voleva
conoscere.
A questo punto, però,
devo fare una precisazione.
Flashback.
Roma. Esterno. Giorno.
Luglio del 1991.
Ero nella capitale, sotto
scorta paterna, per iscrivermi al primo anno della Scuola
Internazionale di Comics. Dopo l'iscrizione, mio padre decise di
portarmi a conoscere Jacovitti. Arrivammo direttamente di fronte alla
sua abitazione, sotto un caldo infernale. Il citofono recava i
cognomi: Jacovitti-Jodice (il cognome della moglie, da notare le due
J) e non si poteva sbagliare, perché la targhetta era scritta con il
pennino su carta ruvida e con lo stesso carattere usato da Jac per i
fumetti.
Mio padre suonò e alla
risposta intraprese un breve ma toccante monologo che più o meno
recitava così:
“Signor Jacovitti, sono
un padre disperato, ho fatto 600 km perchè mio figlio la vuole
conoscere...” e qualche altra frase a effetto, di quelle che
toccano il cuore.
Jacovitti ci aprì (fu
costretto, credo, mettetevi nella sua situazione) con queste parole:
“Terzo piano”.
Arrivati al piano
indicatoci, uscii dall'ascensore e davanti a me comparve un uomo
praticamente uguale ai suoi fumetti: pantalone grigio, camicia a
manica corta verde bottiglia sbottonata che lasciava intravedere una
canotta bianca molto fantozziana, sigaro e un paio di occhiali dalla
montatura molto spessa. Se ben ricordo, non feci neanche in tempo a
parlare che mio padre si buttò in un altro dei suoi atti teatrali e
a voce alta mi disse: “INGINOCCHIATI! INGINOCCHIATI DAVANTI AL TUO
DIO! E continuava a ripeterlo come se mi trovassi di fronte al Papa.
Io riuscii solo a stringergli la mano, rosso dalla vergogna, senza
proferire parola.
Jac ci fece accomodare
nel suo studio, e visionò i miei disegni che, all'epoca, si
ispiravano soltanto al suo stile senza adottarlo ancora pienamente e
fedelmente. Li trovò ugualmente validi e mi disse di farli vedere a
Vezio Melegari a Milano. Detto questo mi autografò un paio di libri
che mi ero portato dietro e mi regalò una vignetta del diario Vitt.
Fu una visita breve, Jacovitti era molto riservato, ma di lui come
uomo vi parlerò in seguito.
Roma. Esterno. Giorno.
Una domenica mattina di un ottobre del 1992.
Arrivai nell'abitazione
di Jacovitti, in via Albornoz 29, poco prima delle 10:00, sempre
sotto scorta paterna. In meno di due minuti ero seduto nel suo
studio, su di una poltrona di fronte a lui.
Mi credete se vi dico che
mi stava già parlando dei lavori che avrei dovuto fare?
Io non facevo altro che
dire “SI!” a ogni sua parola, con quella faccia piena di brufoli
tipica di un diciassettenne in via di sviluppo e gli occhialoni che
mi coprivano gran parte del viso.
Visionò i miei disegni
in un secondo momento (se penso a quanto mi ero sbattuto su quei
disegni), ma sicuramente Vezio Melegari gliene aveva già parlato in
maniera positiva, vista la fiducia che Jacovitti ostentava nei miei
confronti. Mi aveva preparato delle fotocopie in formato originale,
affinché potessi studiare meglio il suo tratto. Erano di Johnny
Peppe, un personaggio protagonista di alcune bellissime storie uscite
sulla rivista Linus, soggette a numerose censure politiche. Ma il
bello era che queste non erano censurate e finalmente mi godetti
questo capolavoro così come la sua mente geniale l'aveva partorito.
Un vero spasso.
Jacovitti quel giorno era
di buon umore. Attraversava un bel periodo e non era difficile
capirne il motivo. Il 1992 fu l'anno della sua rivalutazione
artistica e culturale, dopo anni passati nel dimenticatoio generale.
I motivi di questa grande dimenticanza erano diversi e fra questi
c'era quello politico, con le solite accuse di essere un sostenitore
della destra. Parlerò di Jacovitti politico in un post a parte, ma
vi posso garantire una cosa: Jacovitti non era né di destra né di
sinistra. Credetemi, una così bella persona non aveva niente da
spartire con una cosa così brutta.
Come dicevo prima,
quell'anno tutti iniziarono a ricordarsi che esisteva un genio di
nome Jacovitti. Vari giornali cominciarono a dedicargli articoli e
molti colleghi, da Altan a Forattini, passando per Sergio Staino,
Bonvi e Silver, tesserono pubblicamente le sue lodi. Finalmente anche
il Salone Internazionale dei Comics di Lucca si accorse del suo genio
e optò per assegnare a Jacovitti un tardivo premio Yellow Kid alla carriera
(meglio tardi che mai). Per l'occasione, in collaborazione con
l'agenzia Il Soldatino di Vezio Melegari, venne prodotto un orologio
di Cocco Bill a tiratura limitata e indovinate chi lo disegnò?
Eccomi qua, al mio primo
lavoro ufficiale per Jacovitti (approvato ma non commissionato da
lui). Emozione, euforia, gioia, mi accompagnarono in questi anni al
suo fianco.
Da quella mattina di
ottobre del 1992 ero ufficialmente suo allievo e collaboratore.
Ero a tutti gli effetti
un “GHOST”.
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